Ai tempi della guerra fredda i generali sovietici allineavano i loro carri armati, missili e testate nucleari su una cartina e li confrontavano con quelli a disposizione dei loro rivali d'oltre cortina - l'odiato mondo occidentale.
La conta dimostrava la loro superiorità, e i generali con gli occhi scintillanti ridevano e pensavano che stavano vincendo la guerra.
Di fatto quella guerra iniziarono a perderla quando si misero a contare i carri armati e i missili, non capendo che la battaglia vera era combattuta in campo economico.
Il declino sovietico di fronte al boom statunitense determinò la fine della guerra fredda senza che fosse sparato un solo colpo.
La Cina, ai margini di questo conflitto, decise di non impelagarsi in una corsa agli armamenti che ne avrebbe limitato l'ascesa a beneficio esclusivo dell'economia più forte, quella degli Stati Uniti.
Perciò negli ultimi 30 anni Pechino ha cercato di evitare i conflitti, in ossequio prima alla teoria di Deng Xiapoing - tao guang yang hui, "nascondi le tue capacità e guadagna tempo" - e poi di Zheng Bijian - lo "sviluppo pacifico".
Ora che ha riserve per 2500 miliardi di dollari, è la seconda economia del mondo, cresce del 10% all'anno con una bilancia commerciale in attivo, la Cina sta semplicemente "invadendo" i suoi vicini con capitali e beni di consumo, aiutata anche dalla debole concorrenza degli Usa, alle prese con una crisi di proporzioni storiche.
John Pomfret descrive in un brillante articolo la "conquista" cinese della Cambogia e i piani per saldare l'Indocina alla Cina attraverso dighe e ferrovie. Lo stesso discorso potrebbe essere applicato a molti dei vicini di Pechino.
La Corea del Sud e il Giappone hanno superato la crisi grazie agli scambi commerciali col Dragone, l'India sta cercando di aumentarli, e i lavoratori vietnamiti sono arrivati in massa nel Guangdong per fare il lavoro che gli immigrati dalle zone rurali non vogliono più fare.
A tutti Pechino promette investimenti, acquisti e vendite. Tutte promesse che sembrano sostenute da un'economia in chiara espansione.
Certamente anche in Cina c'è inflazione: i governi locali hanno investito molto e sprecato altrettanto, e il grandioso piano di infrastrutture potrebbe non essere attuabile per anni.
Ciò ha causato dei rallentamenti nell'economia, ma la velocità della crescita può superare tutto, compreso il malcontento della popolazione, sicuramente meno desolata che in America.
Lì il rapporto debito/pil è cresciuto dal 40% al 60% a causa della spesa pubblica per far fronte alla crisi, e potrebbe raggiungere l'80% in un altro paio d'anni.
Cifre come queste fanno scattare verso l'alto gli interessi da pagare sul debito, e richiederanno pertanto tassi d'interesse più alti o un aumento delle imposte, misure che nessun leader politico in nessun paese del mondo vorrebbe attuare.
Tantomeno negli Usa, un paese nato in seguito ad una ribellione contro le tasse decise dal governo britannico. Meno che mai ora, con tutto il fermento attorno al neonato Tea Party, ideologicamente contrario all'aumento delle imposte e all'intervento statale nell'economia.
Può darsi che per qualche anno Washington sia a corto di denaro per compensare la crescita economica cinese, e che Pechino abbia a disposizione un po' più di tempo per mostrare il proprio peso nella regione.
Se è così, l'entusiasmo mostrato dagli Usa per Vinh Cam Ranh, base della US Navy in Vietnam, non ha molto senso da un punto di vista strategico.
Certo, è l'ormeggio più sicuro nel Sudest asiatico e Hanoi non chiederà un dollaro d'affitto, facendo risparmiare un sacco di soldi ai contribuenti, ma non serve a nulla contro l'invasione cinese. Pechino si sta espandendo economicamente, non militarmente.
Sicuramente la Cina è più attiva nel Mar Cinese Meridionale, più spavalda e molto convinta delle proprie rivendicazioni sulle numerose dispute (soprattutto marittime) dell'area. Ma il Dragone non si sta imponendo con i carrarmati, bensì con la propria valuta, lo yuan.
Se il dollaro cala e lo yuan cresce, l'invasione cinese si rafforza automaticamente, perchè Pechino può comprare di più e Washington meno. E le pressioni statunitensi per rivalutare lo yuan non faranno che accelerare questo fenomeno.
Una base militare in Vietnam rischia quindi di diventare una cattedrale nel deserto, il simbolo del fallimento Usa in Asia. O quello del suo nuovo ruolo, da dinamo economica ad arbitro armato in conflitti potenzialmente pericolosi ma molto distanti dal suolo patrio.
A meno che la Cina non consideri la nuova presenza americana in Vietnam come una sfida o decida di dare la priorità alle proprie rivendicazioni territoriali.
Quindi solo se Pechino si farà prendere dalla hubris e invece di coinvolgere i propri vicini, prendendo tempo per rafforzarsi politicamente ed economicamente, deciderà confrontarsi a loro.
In questo caso si aprirebbe uno scenario completamente diverso.
Sarebbe come se gli Usa avessero deciso di affrontare i sovietici durante la guerra fredda secondo le loro regole - un carro armato per ogni carro armato, un missile per ogni missile: una strategia che avrebbe portato l'America alla sconfitta, e che equivarrebbe al suicidio politico di Pechino.
Se la Cina non abbocca all'amo neo-metternichiano tesole dagli Usa in Vietnam, rimane la questione del ruolo di Washington nella regione.
Difficile immaginarla senza gli Usa, ma ancora più difficile pensare che questi, senza soldi, si limitino a giocare a scacchi con le diverse pedine asiatiche.
Se, in qualche anno, l'America si riprenderà e recupererà un po' di soldi da distribuire nell'area, lo scenario cambierà ancora.
È comunque più probabile che gli Usa, pure in ripresa, non avranno la possanza economica di dieci o vent'anni fa. In questo caso dovranno reinventare il loro ruolo in Asia, se vogliono continuare a essere presenti.
Probabilmente è proprio questa la vera sfida.
China's real Asian invasion
(Copyright 2010 Francesco Sisci - traduzione di Niccolò Locatelli)
La conta dimostrava la loro superiorità, e i generali con gli occhi scintillanti ridevano e pensavano che stavano vincendo la guerra.
Di fatto quella guerra iniziarono a perderla quando si misero a contare i carri armati e i missili, non capendo che la battaglia vera era combattuta in campo economico.
Il declino sovietico di fronte al boom statunitense determinò la fine della guerra fredda senza che fosse sparato un solo colpo.
La Cina, ai margini di questo conflitto, decise di non impelagarsi in una corsa agli armamenti che ne avrebbe limitato l'ascesa a beneficio esclusivo dell'economia più forte, quella degli Stati Uniti.
Perciò negli ultimi 30 anni Pechino ha cercato di evitare i conflitti, in ossequio prima alla teoria di Deng Xiapoing - tao guang yang hui, "nascondi le tue capacità e guadagna tempo" - e poi di Zheng Bijian - lo "sviluppo pacifico".
Ora che ha riserve per 2500 miliardi di dollari, è la seconda economia del mondo, cresce del 10% all'anno con una bilancia commerciale in attivo, la Cina sta semplicemente "invadendo" i suoi vicini con capitali e beni di consumo, aiutata anche dalla debole concorrenza degli Usa, alle prese con una crisi di proporzioni storiche.
John Pomfret descrive in un brillante articolo la "conquista" cinese della Cambogia e i piani per saldare l'Indocina alla Cina attraverso dighe e ferrovie. Lo stesso discorso potrebbe essere applicato a molti dei vicini di Pechino.
La Corea del Sud e il Giappone hanno superato la crisi grazie agli scambi commerciali col Dragone, l'India sta cercando di aumentarli, e i lavoratori vietnamiti sono arrivati in massa nel Guangdong per fare il lavoro che gli immigrati dalle zone rurali non vogliono più fare.
A tutti Pechino promette investimenti, acquisti e vendite. Tutte promesse che sembrano sostenute da un'economia in chiara espansione.
Certamente anche in Cina c'è inflazione: i governi locali hanno investito molto e sprecato altrettanto, e il grandioso piano di infrastrutture potrebbe non essere attuabile per anni.
Ciò ha causato dei rallentamenti nell'economia, ma la velocità della crescita può superare tutto, compreso il malcontento della popolazione, sicuramente meno desolata che in America.
Lì il rapporto debito/pil è cresciuto dal 40% al 60% a causa della spesa pubblica per far fronte alla crisi, e potrebbe raggiungere l'80% in un altro paio d'anni.
Cifre come queste fanno scattare verso l'alto gli interessi da pagare sul debito, e richiederanno pertanto tassi d'interesse più alti o un aumento delle imposte, misure che nessun leader politico in nessun paese del mondo vorrebbe attuare.
Tantomeno negli Usa, un paese nato in seguito ad una ribellione contro le tasse decise dal governo britannico. Meno che mai ora, con tutto il fermento attorno al neonato Tea Party, ideologicamente contrario all'aumento delle imposte e all'intervento statale nell'economia.
Può darsi che per qualche anno Washington sia a corto di denaro per compensare la crescita economica cinese, e che Pechino abbia a disposizione un po' più di tempo per mostrare il proprio peso nella regione.
Se è così, l'entusiasmo mostrato dagli Usa per Vinh Cam Ranh, base della US Navy in Vietnam, non ha molto senso da un punto di vista strategico.
Certo, è l'ormeggio più sicuro nel Sudest asiatico e Hanoi non chiederà un dollaro d'affitto, facendo risparmiare un sacco di soldi ai contribuenti, ma non serve a nulla contro l'invasione cinese. Pechino si sta espandendo economicamente, non militarmente.
Sicuramente la Cina è più attiva nel Mar Cinese Meridionale, più spavalda e molto convinta delle proprie rivendicazioni sulle numerose dispute (soprattutto marittime) dell'area. Ma il Dragone non si sta imponendo con i carrarmati, bensì con la propria valuta, lo yuan.
Se il dollaro cala e lo yuan cresce, l'invasione cinese si rafforza automaticamente, perchè Pechino può comprare di più e Washington meno. E le pressioni statunitensi per rivalutare lo yuan non faranno che accelerare questo fenomeno.
Una base militare in Vietnam rischia quindi di diventare una cattedrale nel deserto, il simbolo del fallimento Usa in Asia. O quello del suo nuovo ruolo, da dinamo economica ad arbitro armato in conflitti potenzialmente pericolosi ma molto distanti dal suolo patrio.
A meno che la Cina non consideri la nuova presenza americana in Vietnam come una sfida o decida di dare la priorità alle proprie rivendicazioni territoriali.
Quindi solo se Pechino si farà prendere dalla hubris e invece di coinvolgere i propri vicini, prendendo tempo per rafforzarsi politicamente ed economicamente, deciderà confrontarsi a loro.
In questo caso si aprirebbe uno scenario completamente diverso.
Sarebbe come se gli Usa avessero deciso di affrontare i sovietici durante la guerra fredda secondo le loro regole - un carro armato per ogni carro armato, un missile per ogni missile: una strategia che avrebbe portato l'America alla sconfitta, e che equivarrebbe al suicidio politico di Pechino.
Se la Cina non abbocca all'amo neo-metternichiano tesole dagli Usa in Vietnam, rimane la questione del ruolo di Washington nella regione.
Difficile immaginarla senza gli Usa, ma ancora più difficile pensare che questi, senza soldi, si limitino a giocare a scacchi con le diverse pedine asiatiche.
Se, in qualche anno, l'America si riprenderà e recupererà un po' di soldi da distribuire nell'area, lo scenario cambierà ancora.
È comunque più probabile che gli Usa, pure in ripresa, non avranno la possanza economica di dieci o vent'anni fa. In questo caso dovranno reinventare il loro ruolo in Asia, se vogliono continuare a essere presenti.
Probabilmente è proprio questa la vera sfida.
China's real Asian invasion
(Copyright 2010 Francesco Sisci - traduzione di Niccolò Locatelli)
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