Il pianeta ha la febbre e la diagnosi non è certo ottimista. Sono stati rotti i precari equilibri dell'ecosistema globale e gli effetti sono indesiderabili. Dentro questo scenario vanno iscritti tanti fenomeni degli ultimi anni, dagli incendi delle foreste nel 1988-89 all'ondata inaspettata di calore in Europa del 2003 fino alla forza sempre più potente degli uragani, la devastazione della barriera corallina nei mari dei tropici e la distruzione di specie animali.
In questo scenario stanno ancora aspettando di entrare in scena la diminuzione e sparizione dei ghiacciai, che sono tra le principali fonti d'acqua, le coste inondate per la riduzione dei poli, l'oscillazione inspiegabile ed estrema delle temperature e delle piogge.
Questi fenomeni non sono processi naturali, ma frutto dell'inventiva degli esseri umani. Ma senza dubbio non si può affermare che “tutti siamo colpevoli”. L'umanità o la specie, come predica la retorica siperficiale del sistema di comunicazione di massa ed i discorsi dei politici. I colpevoli hanno un nome e cognome, come ha mostrato Tim Dickinson nella rivista Rolling stones (febbario 2010) nel caso degli stati Uniti. Dickinson ha analizzato, infatti, le attività di 17 personaggi per evitare che il Confresso statunitense cambiasse la sua politica sul cambiamento climatico. Il gruppo di questi “assassini del clima” includete funzionari della Exxon, la senatrice Mary Landrieu, Mark Morano, fondatore di Climate Depot, associazione impegnata a negare il riscaldamento climatico, David Ratcliffe, presidende della Sounthern Company, seconda impresa elettrica tra le più inquinanti del paese, Rupert Murdoch, il magnate dei media e fondatore del canale Fox, rappresentante dell'industria petrolifera, del carbone, del gas. Tutti loro hanno speso milioni di dollari facendo e pressione e promuovendo servizi giornalistici e studi specialistici per influenzare le decisioni del congresso.
La causa principale del disequilibrio ecologico globale è da ricercare nell'insieme industriale che ha come fine l'accumulazione, la concentrazione e centralizzazione del capitale. Questa logica raggiunge la sua massima attuazione nel caso dell'agricoltura visto che le aree rurali del mondo sono gli scenari in cui si realizza la battaglia tra la vita e la morte del pianeta. L'agrobusiness basato sul modello dell'agricoltura industrializzata contribuisce al riscalmento climatico, mentre l'agroecologia dei piccoli produttori tradizionali contribuisce al raffreddamento del pianeta. Questo dilemma rappresenta le due opzioni del mondo agricolo. Da un lato la conversione dell'agricoltura in una specife di pavimento di una fabbrica per la produzione specializzata in medie e grandi proprietà e che utilizza tutto l'arsenale della agroindustria, dai fertilizzanti ai pesticidi chimici alle macchine che funzionano con petrolio e gas fino a le varietà geneticamente modificate, compresi gli ogm. Dall'altro un modello che cerca la relazione reciproca con la natura e i suoi processi, facendo propri i aperi locali tradizionali, rispettando la diversità biologica e genetica, utilizzando l'energia solare, creando aziende di piccola scala a conduzione familiare, cooperativa e di comunità.
Il riscaldamento del pianeta non si deve solo alle produzioni industiali e ai trasporti. Secondo gli ultimi studi dal 25 al 32% delle emissioni di gas serra, che provocano il riscalmento globale, derivano dalle aree rurali: il 18% è dovuto alla deforestazione, principalmente nelle regioni tropicali con la conversione di boschi e selve in aree agricole e di allevamento; il 14% è dovuto alla a coltivazioni e allevamenti in grande scala che generano metano, un gas più dannoso del biossido di carbonio. L'agrobusiness contribuisce al riscaldamento climatico anche perché la deforestazione serve per estendere le monocoltivazioni. Inoltre bisogna pensare che, specializzando nell produzione enormi regioni agricole si aumenta il trasporto di alimenti su larga scala, con tutto quello che comporta come inquinamento dovuto all'uso di combustibili fossili. Al contrario la pratica dell'agroecologia, così come l'agricoltura biologica, l'allevamento tradizionale e l'uso ecologicamente certificato dei boschi si basano nella ricerca della diversità e dell'autosufficienza di ogni località e regione, in modo da evitare uso di energia per i trasporti.
La riunione di Cancun è condannata a diventare una parata gigantesca di cosmesi puramente estetica se non si riconoscono i fenomeni di cui abbiamo parlato e se non vengono presi impegni concreti dai governi e dalle imprese per modificare la realtà. Mentre il presidente messicano dipinge i suoi discorsi di verde, la sua politica agroalimentare, così come quella di altri governi neoliberali, è basata sull'appoggio dei grandi proprietari agricoli, dei grandi allevatori e delle imprese monopolistiche e dei grandi consorzi alimentari, cioè del settore che produce alimenti emettendo il massimo livello di carbonio. Siamo arrivati infatti al punto che la rinuncia alla sovranità e autosufficienza alimentare provoca nel paese il fatto che le importazioni di alimenti dagli Stati Uiti arrivino al 45% del totale, con l'alto costo in trasporti ed energie che questo comporta. A questo va poi aggiunta la mancanza di appoggio all'agricoltura biologica, di comunità, ai progetti di sostenibilità rurale e in generale a tutte quelle forme che contribuiscono ad abassare il riscaldamento globale. Oggi ogni figura istituzionale addobba il suo discorso e la sua immagine con mille forme per nascondere la mancanza di impegni concreti. Il presidente messicano si è fatto fotografare mentre inaugura un impianto di biocombustibile e vicino a un'enorme turbina eolica. Altri politici si faranno altre foto o porteranno avanti altre rassicurazioni simili. Cancun si trarformerà in una fabbrica universale di abbellimenti che l'umanità guarderà con paura e preoccupazione.
Tratto da: La Jornada