Cosa c'è dietro all'escalation della tensione alimentata da Washington nei confronti di Pechino?
Perché gli Stati Uniti continuano a provocare la Cina? Se lo chiedono in molti, anche negli Usa.
L'escalation. Prima l'aggressivo pressing sulle emissioni inquinanti, accompagnato dalla minaccia di Obama di spiare la Cina con i satelliti militari a scopo ambientale.
Poi il durissimo attacco della Clinton alle politiche informatiche cinesi in seguito al caso Google (azienda legata alla più potente agenzia d'intelligence Usa, la National Securty Agency) che con insolito clamore ha denunciato un attacco informatico non diverso dai tanti già subiti in passato.
Pochi giorni dopo, l'annuncio statunitense della vendita di sei miliardi e mezzo di dollari di armamenti a Taiwan in funzione anti-cinese, proprio nel momento in cui i due paesi stanno iniziando a riavvicinarsi.
Poi l'annuncio dell'incontro tra Obama e il Dalai Lama a Washington.
Infine le sorprendenti dichiarazioni del presidente americano, che - proprio alla viglia dei nuovi allarmi sulla crescente disoccupazione Usa - ha apertamente accusato la Cina di mettere in difficoltà il commercio Usa impedendo la ripresa occupazionale, quasi a indicare all'opinione pubblica americana un capro espiatorio esterno per la crisi economica.
I rischi. Che interesse ha Washington ad alzare la tensione con il paese che tiene a galla artificialmente l'economia Usa in crisi, continuando a finanziare l'astronomico debito pubblico Usa (Pechino detiene ormai 800 miliardi di dollari di buoni del Tesoro americano) e a sostenere il valore del biglietto verde detenendo riserve in valuta Usa per due triliardi di dollari?
Se la Cina, stanca di sostenere la decadente egemonia economica Usa basata sul dollaro, decidesse di sfidarla creando un'alternativa basata sullo yuan, vendendo i suoi Bot americani e diversificando le sue riserve, per gli Stati Uniti sarebbe la fine.
Il problema, osservano da mesi gli analisti economici di oltreoceano, è che Pechino pare decisa ad imboccare proprio questa strada.
L'allarme. Il primo campanello di allarme è suonato nei palazzi di Washington quando, lo scorso marzo, il premier cinese Wen Jiabao ha espresso preoccupazione per il futuro degli investimenti cinesi in Bot americani alla luce della debolezza dell'economia Usa.
Pochi giorni dopo il governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, ha avanzato la proposta di abbandonare il dollaro come moneta di riserva internazionale per sostituirlo con la valuta-paniere del Fondo Monetario Internazionale (i Diritti Speciali di Prelievo) in cui inserire anche lo yuan.
Nello stesso periodo il governo cinese ha negoziato scambi valutari (swap) per 650 miliardi di yuan con le banche centrali di Hong Kong, Indonesia, Malesia, Corea del Sud, Bielorussia, Argentina e Giamaica, consentendo di fatto a questi paesi di commerciare con la Cina senza ricorrere al dollaro.
A maggio Pechino ha iniziato a comperare, per la prima volta, buoni del Tesoro Usa a breve scadenza (invece che a lunga scadenza, come aveva sempre fatto) per garantirsi una maggiore flessibilità di disinvestimento, diminuendo i rischi di perdite in caso di vendita.
A settembre il governo cinese ha iniziato a vendere all'estero i suoi primi buoni del Tesoro: ulteriore passo verso l'internazionalizzazione della valuta cinese.
Il 1° gennaio 2010, con l'entrata in vigore del Trattato di libero commercio tra la Cina e i paesi dell'Asean (Vietnam, Laos, Cambogia, Birmania, Thailandia, Malesia, Singapore, Indonesia, Brunei e Filippine, Giappone e Corea del Sud), lo yuan cinese ha iniziato la sua trasformazione in moneta di scambio regionale asiatica: esito apertamente auspicato dal governo di Pechino.
L'impotenza. Insomma, vista da Washington la situazione appare molto chiara: la Cina si sta preparando a voltare le spalle al dollaro, e a farlo in maniera tale da non subire danni economici, ovvero gettando le basi di un sistema commerciale e finanziario internazionale alternativo e basato sulla valuta cinese.
Una gran brutto affare per l'agonizzante potenza economica Usa, costretta a cooperare con chi si sta preparando a prendere il suo posto. Una situazione che risulta certamente umiliante e pericolosa agli occhi di molti esponenti del mondo politico, economico e militare americano. Poteri forti che, secondo alcuni, potrebbero essere dietro alla recente escalation di provocazioni nei confronti di Pechino.
La soluzione? Nell'aprile del 2009, quando la tensione Usa-Cina aveva appena iniziato a montare, il giornalista economico Ilvio Pannullo, scriveva su Business Online: "Stando alla storia e cercando di ritrovare esempi simili nel corso degli anni, i più maliziosi potrebbero ravvisare in questo l'inizio di una strategia della tensione per portare a qualche 'incidente' capace di creare uno stato di guerra, magari non totale, ma sufficiente a bloccare i normali rapporti economici e di mercato, con lo scopo finale di azzerare l'esposizione debitoria americana nei confronti dello stato cinese".
Per certi influenti ambienti della politica Usa, continuava Pannullo, è "insopportabile l'idea di essere così profondamente condizionati dallo stato dei rapporti economici e monetari con Pechino. Oggi è in ballo la fine dell'egemonia americana e quella è gente che non arretra davanti a nessun crimine. (...) Il momento di grande crisi sembrerebbe estremamente opportuno per poter liquidare l'enorme debito estero e dare così una speranza di ripresa".
L'escalation. Prima l'aggressivo pressing sulle emissioni inquinanti, accompagnato dalla minaccia di Obama di spiare la Cina con i satelliti militari a scopo ambientale.
Poi il durissimo attacco della Clinton alle politiche informatiche cinesi in seguito al caso Google (azienda legata alla più potente agenzia d'intelligence Usa, la National Securty Agency) che con insolito clamore ha denunciato un attacco informatico non diverso dai tanti già subiti in passato.
Pochi giorni dopo, l'annuncio statunitense della vendita di sei miliardi e mezzo di dollari di armamenti a Taiwan in funzione anti-cinese, proprio nel momento in cui i due paesi stanno iniziando a riavvicinarsi.
Poi l'annuncio dell'incontro tra Obama e il Dalai Lama a Washington.
Infine le sorprendenti dichiarazioni del presidente americano, che - proprio alla viglia dei nuovi allarmi sulla crescente disoccupazione Usa - ha apertamente accusato la Cina di mettere in difficoltà il commercio Usa impedendo la ripresa occupazionale, quasi a indicare all'opinione pubblica americana un capro espiatorio esterno per la crisi economica.
I rischi. Che interesse ha Washington ad alzare la tensione con il paese che tiene a galla artificialmente l'economia Usa in crisi, continuando a finanziare l'astronomico debito pubblico Usa (Pechino detiene ormai 800 miliardi di dollari di buoni del Tesoro americano) e a sostenere il valore del biglietto verde detenendo riserve in valuta Usa per due triliardi di dollari?
Se la Cina, stanca di sostenere la decadente egemonia economica Usa basata sul dollaro, decidesse di sfidarla creando un'alternativa basata sullo yuan, vendendo i suoi Bot americani e diversificando le sue riserve, per gli Stati Uniti sarebbe la fine.
Il problema, osservano da mesi gli analisti economici di oltreoceano, è che Pechino pare decisa ad imboccare proprio questa strada.
L'allarme. Il primo campanello di allarme è suonato nei palazzi di Washington quando, lo scorso marzo, il premier cinese Wen Jiabao ha espresso preoccupazione per il futuro degli investimenti cinesi in Bot americani alla luce della debolezza dell'economia Usa.
Pochi giorni dopo il governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, ha avanzato la proposta di abbandonare il dollaro come moneta di riserva internazionale per sostituirlo con la valuta-paniere del Fondo Monetario Internazionale (i Diritti Speciali di Prelievo) in cui inserire anche lo yuan.
Nello stesso periodo il governo cinese ha negoziato scambi valutari (swap) per 650 miliardi di yuan con le banche centrali di Hong Kong, Indonesia, Malesia, Corea del Sud, Bielorussia, Argentina e Giamaica, consentendo di fatto a questi paesi di commerciare con la Cina senza ricorrere al dollaro.
A maggio Pechino ha iniziato a comperare, per la prima volta, buoni del Tesoro Usa a breve scadenza (invece che a lunga scadenza, come aveva sempre fatto) per garantirsi una maggiore flessibilità di disinvestimento, diminuendo i rischi di perdite in caso di vendita.
A settembre il governo cinese ha iniziato a vendere all'estero i suoi primi buoni del Tesoro: ulteriore passo verso l'internazionalizzazione della valuta cinese.
Il 1° gennaio 2010, con l'entrata in vigore del Trattato di libero commercio tra la Cina e i paesi dell'Asean (Vietnam, Laos, Cambogia, Birmania, Thailandia, Malesia, Singapore, Indonesia, Brunei e Filippine, Giappone e Corea del Sud), lo yuan cinese ha iniziato la sua trasformazione in moneta di scambio regionale asiatica: esito apertamente auspicato dal governo di Pechino.
L'impotenza. Insomma, vista da Washington la situazione appare molto chiara: la Cina si sta preparando a voltare le spalle al dollaro, e a farlo in maniera tale da non subire danni economici, ovvero gettando le basi di un sistema commerciale e finanziario internazionale alternativo e basato sulla valuta cinese.
Una gran brutto affare per l'agonizzante potenza economica Usa, costretta a cooperare con chi si sta preparando a prendere il suo posto. Una situazione che risulta certamente umiliante e pericolosa agli occhi di molti esponenti del mondo politico, economico e militare americano. Poteri forti che, secondo alcuni, potrebbero essere dietro alla recente escalation di provocazioni nei confronti di Pechino.
La soluzione? Nell'aprile del 2009, quando la tensione Usa-Cina aveva appena iniziato a montare, il giornalista economico Ilvio Pannullo, scriveva su Business Online: "Stando alla storia e cercando di ritrovare esempi simili nel corso degli anni, i più maliziosi potrebbero ravvisare in questo l'inizio di una strategia della tensione per portare a qualche 'incidente' capace di creare uno stato di guerra, magari non totale, ma sufficiente a bloccare i normali rapporti economici e di mercato, con lo scopo finale di azzerare l'esposizione debitoria americana nei confronti dello stato cinese".
Per certi influenti ambienti della politica Usa, continuava Pannullo, è "insopportabile l'idea di essere così profondamente condizionati dallo stato dei rapporti economici e monetari con Pechino. Oggi è in ballo la fine dell'egemonia americana e quella è gente che non arretra davanti a nessun crimine. (...) Il momento di grande crisi sembrerebbe estremamente opportuno per poter liquidare l'enorme debito estero e dare così una speranza di ripresa".