venerdì 15 maggio 2009

La Nakbah degli ebrei non sionisti


Intervista a Michel Warschawski, intellettuale israeliano, di fronte al 61° anniversario della nascita d’Israele


Figlio del rabbino capo di Strasburgo, Michel Warschawski aveva due parole possibili per definirsi, juif e hebreux. Ha scelto la seconda, colui che passa, che attraversa, ha scelto il confine, "un concetto non spaziale, ma sociologico, che implica un indagare costante sulla propria identità, sul Noi, in rapporto all’identità dell’Altro" - ha scelto l’inquietudine il dubbio, il pensiero inappagato e tutto Lorenzo Milani, quando l’obbedienza diceva, non è una virtù, ma la più subdola delle tentazioni. Perché era il 1982 quando per la prima volta, chiamati in Libano, i riservisti decisero di non partire, sostenendo che il loro compito era difendere Israele, non avventurarsi in guerre di aggressione: e si firmarono così Yesh Gvul, "che ha un duplice significato, c’è un confine, ovvero quello libanese, che non attraverseremo, ma anche c’è un limite, ovvero non tutto è permesso. Perché a volte il confine è un limite da attraversare, quando separa mediante identità a tenuta stagna, ma altre volte è un limite da tutelare, quando protegge la propria autonomia sovranità, autodeterminazione. E allora è necessario a volte attraversare a volte presidiare, abitare il passaggio, il solo luogo dove è possibile espandere la propria libertà - il predefinito, l’assimilato, il confine ereditato in riflesso acritico". E da qui, allora, anche l’Alternative Information Centre, per l’idea più semplice e eversiva: tradurre tra arabo e ebraico, perché "dopo Sabra e Chatila, in piazza erano 400mila, ma non più di quaranta avevano mai parlato con un palestinese che non fosse il cameriere". E perché invece come Nanni Moretti, le parole sono importanti, chi parla male pensa male, e vive male - in una guerra in cui come in ogni altra, definire è creare, vincere convincere, e il ministero più ambito non è il ministero della difesa, ma dell’istruzione.

"Ma questa non è una aggressione, è una guerra contro il terrorismo. Solo legittima difesa".

Tutte le guerre di Israele sono state e ancora sono guerre di aggressione - a essere precisi, Israele è in sé un’aggressione. Non sono ovviamente contro l’esistenza di Israele, ma la prima delle parole che ingannano, qui, è il 1948, la cosiddetta ‘guerra di indipendenza’ - mentre è stata essenzialmente una guerra di conquista e espulsione. Siamo precipitati in pochi anni da gruppi terroristici, a stati canaglia, a popoli interi qualificati indistinti come minacce esistenziali, e l’evoluzione non è quantitativa ma qualitativa, non si combatte più contro una politica, un governo, un obiettivo specifico, ma contro pericoli dalle definizioni sempre più vaghe. D’altra parte, se davvero qui fosse questione di Hamas, anche l’ultimo degli analisti consiglierebbe l’intelligence, non certo l’esercito. Invece così diventa una guerra, termine non meno fuorviante di terrorismo: come se la quinta potenza militare al mondo stia fronteggiando una forza equivalente, i loro razzi di latta contro il nostro nucleare: ma conviene, no?, perché ‘in guerra tutto è permesso’. La degenerazione semantica puntella la degenerazione etica. L’intera società palestinese è diventata il cancro di Israele - è la criminalizzazione del nemico, è Carl Schmitt, l’injustus hostis contro cui tutto è lecito, fino all’annientamento: i civili non sono più vittime accidentali, danni collaterali, semplicemente perché non sono più civili. E l’icona di tutto questo è Gaza, una ‘entità nemica’. Una cosa astratta. Neppure più una popolazione.

"Ma non abbiamo scelta. Non abbiamo nessuno con cui parlare".

Non è vero, abbiamo sempre avuto ‘qualcuno con cui parlare’. Ma con la sola eccezione di Egitto e Giordania, abbiamo sempre scelto di sabotare ogni tentativo di negoziato. Con un ragionamento molto semplice: se il nemico è forte, trattare è rischioso, ma d’altra parte se il nemico è debole, perché trattare? Non si comprende questa logica se non si comprende che il sionismo non è un progetto che ha raggiunto il suo obiettivo, esaurito il proprio corso storico - come ha ricordato Sharon, la guerra di indipendenza non è ancora finita. Non si discute di confini tra due entità definite, ma dinamiche, in movimento. E allora quando il nemico è fragile, e disposto a concessioni, è il momento di lavorare non all’accordo, ma a una ulteriore espansione. La giustificazione secondo cui ‘non esiste nessuno con cui parlare’ non è la causa, ma il fine della politica israeliana: impedire che di là dal Muro si consolidi un soggetto forte, credibile, capace e pronto al dialogo. Con Oslo, Israele ha riconosciuto l’Autorità Palestinese, ma continuando insieme a minare la sua continuità territoriale, a devastare sistematicamente le sue infrastrutture più basilari, a privarla di ogni risorsa e reale autonomia, ostacolando il conseguimento di qualsiasi risultato concreto: Oslo non è stato che il sub-appalto della sicurezza e repressione, l’intento di radicalizzare i palestinesi verso Hamas - e in definitiva, impedire l’emergere di una controparte per il negoziato.

"Ma i palestinesi non perdono mai l’opportunità di perdere un’opportunità".

Siamo noi la saracinesca di ogni opportunità. Il cosiddetto processo di pace non è stato che la creazione di una relazione neocoloniale con l’Autorità Palestinese, e cioè la pace nella proposta della sinistra - secondo cui Israele ha raggiunto la massima estensione possibile, e ora possiamo procedere alla separazione, individuando gli indigeni con cui collaborare. Dirla autonomia, o indipendenza, alla fine è indifferente. Si tratta comunque di cancellare i palestinesi. Eppure all’epoca il dibattito è stato intenso, l’esito di Oslo non era predeterminato: ma tutto è finito con l’assassinio di Rabin, quando la sinistra ha privilegiato l’unità nazionale, e dunque l’accordo con gli estremisti di destra, all’accordo con i palestinesi - i confini interni, invece che esterni. Il cosiddetto ‘disimpegno’ da Gaza, o ‘riposizionamento’ a seconda della propaganda scelta, è invece la pace vista da destra, il ritorno all’unilateralismo: per Rabin era il momento di stabilire il confine, per Sharon ancora no, il confine poteva essere solo la Giordania.Ma il problema rimane lo stesso: convertire i palestinesi in ‘presenti-assenti’. Perché la deportazione non è più un’opzione realistica: e allora l’unica alternativa è escludere nei fatti i palestinesi dal paese, e sperare nel quiet transfer: incentivare l’emigrazione minando le condizioni di vita. Israele oggi è un gigantesco emmenthal, una mappa piena di buchi - e quei buchi, quella rimozione collettiva sono i palestinesi. Ma più in generale, e è evidente con Annapolis, ormai è la stessa retorica delle ‘conferenze di pace’ a ingannare. Si guarda agli invitati. Bisogna invece guardare agli assenti. Conferenze di pace che escludono Hamas, ovvero la maggioranza dei palestinesi secondo democratiche elezioni, sono conferenze di guerra - non sono opportunità. Ma fondamentalmente io non penso che l’oppressore abbia titolo a giudicare l’oppresso, la tattica e efficacia della sua resistenza. Posso criticare solo se sono capace di indicare altre strade.Fossi palestinese, probabilmente avrei molto da non condividere: ma come israeliano, ho scelto di non giudicare. Dovrei forse dire ai palestinesi che colpire civili rende la battaglia meno popolare presso il loro nemico? Per me la dicotomia non è tra violenza e non violenza, ma resistenza e terrorismo: e la differenza non è semantica, ma giuridica, perché la resistenza armata è legittima - è il terrorismo, il colpire indiscriminato i civili, a essere illegittimo: anche quando le bombe piovono dagli aerei di Israele.

"Ma questa è un’occupazione liberale e illuminata. Israele è la sola democrazia del Medio Oriente".

Non è possibile essere insieme etnici e democratici, il sionismo è incompatibile con la democrazia - e non solo quando aggredisce, ma anche quando difende Israele, ovvero la sua natura ebraica intesa demograficamente come composizione prevalentemente ebraica: perché la democrazia è convivenza tra diversi, senza discriminazioni. La nozione israeliana di democrazia è esclusivamente procedurale: elezioni e principio di maggioranza. Ma la democrazia non si può svuotare di diritti, di cittadinanza. La democrazia qui è una specie di piramide, con alla base, larga, piena, gli ebrei israeliani, a cui è consentita anche la dissidenza. Ma poi si passa agli arabi israeliani, in particolare i loro diritti di proprietà e residenza, e l’eguaglianza viene immediatamente meno. Poi ancora i palestinesi dei territori, occupati, non amministrati, e derubati dunque completamente della democrazia. E al vertice, infine, i palestinesi della diaspora - derubati di molto più che la democrazia. Ma non solo. Perché per ogni diritto si ha sempre la possibilità permanente - e giuridicamente lecita, questo è l’aspetto cruciale - di eccezioni: e come insegna Carl Schmitt, sovrano è chi decide dello stato di eccezione. E non è responsabilità solo del governo, qui, o dell’esercito, o dei coloni. Il governo decreta, i tribunali confermano, la società accetta. In televisione sono frequenti i talk show del tipo ‘deportazione, sì o no?’ - è una nuova, perversa normalità. In sessant’anni siamo passati da prigionieri a carcerieri, si spiega ai soldati come entrare in un refugee camp secondo la tecnica dei tedeschi nel ghetto di Varsavia... Già, ora siamo davvero una nazione come le altre nazioni.

"Ma uno stato ebraico è incompatibile con il ritorno dei palestinesi".

Il diritto al ritorno è un diritto inviolabile e indisponibile. Non è possibile mercanteggiare, su questo argomento: e certo poi non con un terzo in sostituzione del legittimo titolare. Prima che discutere di possibili opzioni soluzioni, percentuali, proiezioni, è necessario discutere di valori. Non ha senso parlare di un riconoscimento simbolico - una ammissione della propria parte di responsabilità nel dramma del 1948, come propone la sinistra, e dunque anche del diritto al ritorno, e in cambio però della rinuncia all’esercizio effettivo di questo diritto. Israele fu ammesso alle Nazioni Unite a condizione di rispettare la Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale: i rifugiati sono una questione centrale, non marginale. Perché il diritto al ritorno, o meglio, il ritorno dei palestinesi, è fondamentale per gli israeliani stessi. Altrimenti rimarrà sempre una massa di disperati, in bilico precaria nei paesi vicini, in guerra con noi indipendentemente da ogni formale accordo di pace: e soprattutto, altrimenti l’ipocondria sarà qui la nostra sola forma di salute. Non è solo questione di rimarginare le ferite dei palestinesi, ma anche guarire gli israeliani dalla paura che li sfigura in persecutori. Il ritorno dei palestinesi è la condizione per un autentico ritorno degli ebrei in Medio Oriente.

"Ma buoni steccati, buoni vicini".

Conosciamo, drammatici, gli effetti del Muro sulla vita dei palestinesi, ma è tempo di domandarci quali siano gli effetti sulla vita, e la psiche, degli israeliani. Non è una barriera materiale, è qualcosa di più, perché la separazione non è una tecnica, qui, ma un valore - e la separazione non solo dai palestinesi, ma dal resto del mondo: è il pilastro dell’ideologia sionista, l’ebraicità, e dunque l’omogeneità dello stato. L’obiettivo non è l’eliminazione fisica dell’Altro, naturalmente, ma per il sionismo, intrinsecamente, l’Altro è un problema, non una ricchezza. Non è un Muro, è una filosofia politica. Si discute solo del suo tracciato, non della sua legittimità giuridica o etica, il dubbio è semplicemente dove collocarlo, se più o meno lungo la Linea Verde, includendo o escludendo quanti e quali insediamenti. Ma un Muro non può essere un confine, perché un confine implica reciprocità, che si decida insieme chi entra e chi esce, e a quali condizioni. Se a decidere è una sola delle parti, non si chiama confine, si chiama prigione: e infatti si parla di hafrada, una separazione appunto unilaterale, coercitiva, non consensuale, hipardouth - e hafrada è quello che l’olandese traduce apartheid. Con la sinistra che è pienamente complice di questa filosofia. Non si è mai confrontata con i palestinesi, ha sempre spiegato loro cosa fosse meglio, cosa realistico, cosa no - tutti gli israeliani hanno sempre avuto qualcosa da insegnare agli arabi: se solo avessero accettato la generosa offerta del 1947... L’unica differenza è il paternalismo: il colonialista di sinistra crede di fare tutto per il bene dei palestinesi - una sorta di razzismo compassionevole. Perché poi, appena il colonizzato non recita più disciplinato il ruolo che gli è stato assegnato, e non mendica favori, ma rivendica diritti, il colonialista si sente tradito nella sua fiducia: e allora, con la coscienza tranquilla, legittima moralmente tutto. Per gli israeliani la pace non è questione di giustizia, ma di sicurezza - ovviamente la loro sicurezza. E allora il confine non è più tra israeliani e palestinesi, per me, ma tra persone che cercano la pace e persone che non cercano la pace - o meglio, persone che hanno una diversa concezione di pace. Anche questa è una parola che inganna. Perché il problema è il tipo di pace perseguito. Per me la pace è necessariamente una pace giusta, l’accento è sull’aggettivo, e non sul sostantivo. Non solo l’assenza di guerra, ma la fine dell’occupazione.

"Ma Israele è la salvezza degli ebrei. Lei è un traditore. Un anti-semita".

Ma come posso tradire una causa che non ho mai sentito mia? L’identità israeliana è una identità povera, impermeabile non solo all’Altro, ma anche all’ebraismo. Il sionismo è una duplice nakbah: l’israeliano è solo l’ebreo alto biondo, gli occhi celesti, scolpito e reinventato tra scuola e esercito in nome di un mitico passato biblico vecchio di duemila anni - l’ebreo ariano. Sappiamo la tesi di molti: l’Olocausto è accaduto anche perché gli ebrei hanno consentito accadesse - la mia compagna, nata qui, chiamava ‘saponetta’ tutti quelli che non le sembravano abbastanza forti. D’altra parte, è stata Golda Meir a dire senza mezzi termini che Israele ha bisogno, per esistere, di un ‘moderato antisemitismo’. Perché poi i confini sono anche i confini interni, quelli che tagliano trasversalmente uno stato: e spiegano molto dei confini esterni, dal momento che solo l’emergenza nazionale tiene insieme sefarditi e ashkenaziti, destra e sinistra, laici e religiosi. Solo la Palestina tiene insieme Israele. Ed è per questo che la pace spaventa. Perché a quel punto inizierà la battaglia per la nostra identità... Cosa rimane di un israeliano, oltre il sionismo, oltre l’immagine in negativo di non-palestinese e non-arabo? Quando mi trasferii qui non scelsi Israele, ma Gerusalemme, questa pretesa capitale eterna e indivisibile che è in realtà la città meno israeliana di Israele. Una città irrimediabilmente ebraica, microcosmo della diaspora, un incalzare di periferie in cui si resisteva alla ruspa assimilatrice della modernità sionista, saldi nei propri accenti, le proprie tradizioni - perché le periferie, lontane dal centro, sono la possibilità di abitare la distanza: non solo guardare l’Altro, ma essere l’Altro. Il dubbio, sempre, il ripensamento, ancorati al tempo invece che allo spazio, la propria storia e cultura come la propria unica vera patria. Fino al 1967, Gerusalemme era fisicamente fuori da Israele. Ci si arrivava lungo una strada incuneata in territorio giordano. Era un altro mondo. E i cartelli infatti dicevano: attenzione, confine.

Scusi, ma allora perché non vivere altrove?

Non amo questa domanda. Il luogo in cui si vive non dice tutto di una persona. Quello che importa è cosa si fa o non fa, nel luogo in cui si vive - non erano criminali i tedeschi rimasti in Germania, ma quelli rimasti in Germania senza reagire al nazismo. Vivo in questo paese semplicemente perché è bellissimo. Partire non è un valore, solo una libera scelta, una scelta legittima, ma che non condivido - perché sarebbe anti-palestinese, non anti-israeliana. Bisogna rimanere qui. La parola più affilata è la parola concreta - la resistenza, da questa parte del Muro, è la normalità di chi non vive tra nemici, ma vicini. E poi - partire per dove? La questione palestinese non è che il laboratorio di una guerra globale neoliberista, preventiva e permanente, di una nuova narrazione dominante, quella dello scontro di civiltà. E è qui che il confine si fa frontiera, nel senso americano dei cowboy, l’inizio del selvaggio West, lo spazio della conquista e della dismisura. Non esistono più conflitti locali, solo fronti locali di un’unica guerra per la ricolonizzazione del mondo, attraverso istituzioni e valori presunti universali in nome di una nuova religione, quella per cui al di fuori del mercato non esiste salvezza - un apartheid planetario di centri contro periferie. Nessuno è illeso, nessuno è immune, si chiama Schengen il vostro Muro.

Francesca Borri
Articolo pubblicato da PeaceReporter

BOICOTTA TURCHIA

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Questo video è una libera interpretazione che vuole mettere in risalto l'importanza del Caffè Rebelde Zapatista, come principale fonte di sostentamento delle comunità indigene zapatiste e come bevanda prelibata, degustata da secoli in tutto il mondo. I suoni e i rumori che accompagnano l'osservatore in questa proiezione, sono stati scelti con l'intenzione di coinvolgervi completamente nell'esperienza visiva e trasportarvi direttamente all'interno della folta vegetazione che contraddistingue tutto il territorio del Chiapas, dove viene coltivato questo caffè.

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