Il modello agrotecnico ed il settore minerario che hanno cominciato a stabilirsi nel paese alla fine della decade scorsa ha colpito contadini poveri e popoli originari, un settore taciuto ed ubicato negli antipodi della ’Mesa de Enlace’ . Una controversia da cinque milioni di ettari con 600 mila persone coinvolte nel nordovest del paese.
Man mano che avanzano nel paese le diverse industrie estrattive (petrolio, settore minerario, monocolture industriali), si incrementa come risposta l’organizzazione delle comunità rurali e piccoli paesi che resistono all’assalto imprenditoriale.
Un osservazione dei conflitti territoriali ed ambientali su sei province del nordest argentino, conferma questa situazione, quantifica la grandezza del fenomeno e fornisce dati inediti: cinque milioni di ettari in contesa, quasi 600 mila persone coinvolte e la conferma che il settore privato e statale sono i principali oppositori ai contadini ed indigeni, un spettro rurale taciuto ed ubicato agli antipodi della Mesa de Enlace (Rappresentanza dei quattro maggiori sindacati degli imprenditori agricoli). Il lavoro, che coincide con un altro realizzato dalla Cattedra Unesco di Sostenibilità dell’Università Politecnica della Cataluña (UPC) ha rivelato che la maggiore conflittualità è cominciata nella decade del 90, dall’inizio dell’avanzamento della soia sul nord del paese.
"Conflitti sul possesso della terra e salvaguardia ambientale nella regione del Chaco argentino" è il titolo dell’inchiesta della Red Agroforestal Chaco Argentina (Redaf), integrata da un collettivo di organizzazioni, accademici e tecnici di distinte discipline.
Hanno identificato 120 conflitti, dei quali sono già processati finora 52 casi, il 43%. I dati sono travolgenti: 600 mila persone, per la maggioranza contadini ed indigeni, delle province di Salta, Formosa, Santiago dell’Estero, Chaco, Cordoba e nord di Santa Fe, sono coinvolti in conflitti territoriali ed ambientali.
Hanno identificato 120 conflitti, dei quali sono già processati finora 52 casi, il 43%. I dati sono travolgenti: 600 mila persone, per la maggioranza contadini ed indigeni, delle province di Salta, Formosa, Santiago dell’Estero, Chaco, Cordoba e nord di Santa Fe, sono coinvolti in conflitti territoriali ed ambientali.
La relazione definisce "Una superficie e popolazione che praticamente equivalgono alla provincia di Jujuy sono quelle che attualmente si trovano colpite da conflitti di terra o salvaguardia ambientale nella regione chaqueña argentina", e fa emergere che più della metà dei conflitti (63%) sono cominciati a partire da 2000, epoca in cui è incominciata l’espansione della frontiera agricola nel nordest argentino. Sottolinea anche che nel 95% dei conflitti hanno come protagonisti organizzazioni di base e le articolazioni delle comunità.
La regione del Chaco Americano (comprende nord argentino e zone del Paraguay e Bolivia) è, dopo delle Amazzoni, l’area più ricca in biodiversità. È anche la zona con gli indici di povertà più alti del paese. Le famiglie contadine e indigene affrontano nei loro conflitti lo Stato (52%), imprese e persone fisiche (44%), Stato assieme ad imprese riunite, ONG e chiese (4%).
La gran maggioranza (70%) delle famiglie e comunità coinvolte incolpano lo Stato per la loro situazione di conflitto, soprattutto per la mancanza di titoli di proprietà, dove i danneggiati sentono mancanza di volontà politica o negligenza e ritardi da parte della dirigenza per risolvere la situazione. Caricano anche contro il Potere Giudiziario che, nell’opinione dei colpiti, da un’interpretazione tendenziosa del Codice Civile, che normalmente favorisce chi ha un discutibile titolo di proprietà e non chi ha il possesso delle terre.
"Negli ultimi anni ampie zone del NEA e NOA si sono aggiunti alla produzione di oleose, specialmente soia, e sono state incorporate in questo modo allo schema rinnovante dell’agricoltura pampeana, a seguito del quale sono stati rasi al suolo decine di migliaia di ettari di monte, eliminate coltivazioni tradizionali, variata la destinazione di terreni storicamente adibiti all’allevamento e modificata la struttura della cura della terra", afferma l’indagine e precisa che "la modernizzazione agricola ha incrementato il deterioramento degli ecosistemi, peggiorato le condizioni di vita ed accelerata la migrazione dei piccoli produttori."
Si sono identificati 14 casi di conflitti ambientali, dei quali il 72% incominciato a partire dal 2000. Il 36% si deve a deforestazione (per realizzare opere di infrastruttura o abilitare campi per semina), il 29% per inquinamento (uso di agrotossici, rifiuti industriali e canali che provocano deterioramento dell’ambiente), il 14% ad opere di infrastruttura e l’altro 14% è preventivo (per minacce di inquinamento e deforestazione).
Le controparti nelle dispute ambientali sono lo Stato (79%) ed imprese (21%). A differenza dei conflitti per la terra, i conflitti ambientali colpiscono la popolazione in generale, non solo a creoli ed aborigeni.
La relazione risalta i casi di conflitti ambientali causati per opere pubbliche. Benché non siano la causa maggioritaria, colpiscono ecosistemi importanti della regione: Bañado la Estrella, in Formosa, e i Bajos Submeridionales, in Santa Fe, che includono estese superfici e gran quantità di popolazione. "Le opere provocano cambiamenti nella loro dinamica naturale, inondazioni, siccità, desertificazione, deforestazione e perdita di biodiversità", spiega.
Il rilevamento della Redaf segnala l’esistenza di due fattori che rendono impossibili le politiche di sviluppo delle comunità contadine e indigene: la precarietà nella detenzione della terra ed i danni ambientali provocati per l’accelerata espansione della frontiera agricola. La ricerca ricorda che in Argentina l’80% della popolazione vive in città con più di100.000 abitanti ed assicura che “non c’è volontà politica o non si vedono politiche pubbliche" che considerino la permanenza della popolazione rurale nelle loro terre.
Missione in sei province
Per l’inchiesta sono state visitate sei province (Santiago dell’Estero, Jujuy, Salta, Catamarca, Mendoza e Cordoba), realizzando 55 interviste, in due anni di lavoro di una squadra multidisciplinaria di professionisti. Con 187 pagine strapiene di dati, testimonianze, inchieste di altre istituzioni e incrocio di dati, si è avvalsa dell’appoggio locale del Movimento Nazionale Contadino Indigeno (MNCI-Via Campesina), di membri dell’Unione di Assemblee Cittadine (UAC) ed è stato presentato a Ginevra, Svizzera, durante il 12º periodo di sessioni del Consiglio di Diritti Umani.
La Cátedra Unesco de Sostenibilidad della Universidad Politécnica de Cataluña (UPC) è iniziata nel 1996 dopo un accordo tra Unesco e l’UPC. Nell’ultima decade si è trasformata in un punto di riferimento per quello che riguarda diritti umani, ambiente ed economia. Hanno condiviso l’elaborazione dell’indagine anche l’organizzazioni come Educación para la Acción Crítica, il Grupo de Cooperación del Campus de Terrassa e il Grupo de Investigación en Derechos Humanos y Sostenibilidad. Ha collaborato la Asociación Catalana de Ingegneri Senza Frontiere e aiutato il Dipartimento dell’Interno di Cataluña.