Un nuovo inizio. Di questo si è trattato il primo marzo. Fin da subito, ascoltando le prime corrispondenze che arrivavano dai quattro angoli della penisola, avevi questa sensazione di qualcosa di nuovo che stava mettendosi in moto. Voci fresche, emozionate e a volte sorprese raccontavano di scioperi dei consumi e di scioperi nelle fabbriche (“Non abbiamo bisogno del permesso per scioperare”, dicevano molti cartelli sbeffeggiando la miopia dei sindacati), di cortei studenteschi e di “lezioni di clandestinità”, dei presidi davanti all’INPS, ai cantieri, ai mille luoghi dove il lavoro migrante è quotidianamente sfruttato, ma altrettanto quotidianamente lotta e resiste. Poi sono arrivate le foto, e le piazze mostravano già dal mattino i volti nuovi di una composizione giovanile in cui si incrociano storie e colori, lingue ed emozioni. Mano a mano che la giornata trascorreva, le strade di mille città d’Italia si riempivano e confluivano idealmente in una straordinaria espressione moltitudinaria (per una volta non è davvero retorica utilizzare questo termine) di rifiuto del razzismo e di affermazione di una nuova cittadinanza.
Ho sentito a Bologna una giovane donna migrante rispondere un po’ stupita a un giornalista che le chiedeva se in piazza c’erano i “cittadini del futuro”: ma che dice, in piazza ci sono i cittadini del presente! Ecco, questo è il punto: la dimensione sociale della cittadinanza si è presa per un giorno la rivincita sulla sua dimensione giuridica. La presa di parola – singolare eppure collettiva – di decine di migliaia di donne e uomini ha mostrato intera la materialità della fitta trama di cooperazione sociale e di conflitto che rende ricche e degne di essere vissute le città che abitiamo. E ha svelato al tempo stesso la miseria della cittadinanza che vorrebbero imporci, fortificata da “pacchetti sicurezza” e razzismo e svuotata di diritti.
Ho sentito a Bologna una giovane donna migrante rispondere un po’ stupita a un giornalista che le chiedeva se in piazza c’erano i “cittadini del futuro”: ma che dice, in piazza ci sono i cittadini del presente! Ecco, questo è il punto: la dimensione sociale della cittadinanza si è presa per un giorno la rivincita sulla sua dimensione giuridica. La presa di parola – singolare eppure collettiva – di decine di migliaia di donne e uomini ha mostrato intera la materialità della fitta trama di cooperazione sociale e di conflitto che rende ricche e degne di essere vissute le città che abitiamo. E ha svelato al tempo stesso la miseria della cittadinanza che vorrebbero imporci, fortificata da “pacchetti sicurezza” e razzismo e svuotata di diritti.
Come si è arrivati a questa giornata? Come ci si è arrivati, soprattutto, dopo che negli ultimi due anni il movimento anti-razzista e dei migranti (tutti noi) era sembrato incapace di riconquistare protagonismo, pur di fronte allo stillicidio quotidiano di aggressioni e a provvedimenti legislativi senza precedenti in Italia? Certo, dopo ogni aggressione c’era stato un presidio, i medici e gli infermieri avevano reagito con forza alla prospettiva di divenire poliziotti e di dover denunciare i “clandestini”, a ottobre a Roma c’era stata una grande manifestazione. Ma tutti avvertivamo l’inadeguatezza delle risposte, tutti percepivamo una certa stanchezza e ritualità, tanto in piazza quanto nelle assemblee che si susseguivano. Solo ieri ci siamo liberati, almeno per un giorno, di queste sensazioni, abbiamo ritrovato lo spirito non meramente difensivo, ma letteralmente offensivo, di attacco, che ha caratterizzato le prime manifestazioni del movimento anti-razzista e dei migranti, dal grande corteo romano del 7 ottobre 1989 dopo l’omicidio di Jerry Masslo a Villa Literno alle straordinarie lotte dei migranti negli anni Novanta, da Brescia a Caserta, da Genova a Roma. Spirito offensivo, di attacco: il che vuol dire semplicemente affermazione di un principio nuovo, di una nuova norma della cooperazione sociale e della cittadinanza, sulla base della consapevolezza che questo nuovo principio e questa nuova norma siano infinitamente più ricchi di tutto ciò che gli si oppone – anche se questa opposizione ha dalla sua la forza della legge e la maggioranza del Parlamento.
Le piazze e le strade italiane, il primo marzo, erano colorate (anche) di giallo. Credo che sia doveroso rendere merito alle quattro donne che, riprendendo un’analoga iniziativa francese che traeva a sua volta ispirazione dalla storica mobilitazione dei latinos negli USA il primo maggio 2006, hanno avviato mesi fa il percorso che ha condotto alla “giornata senza di noi”. Senza la loro iniziativa, il primo marzo semplicemente non ci sarebbe stato. Ma diciamolo con una battuta: il giallo è diverso dal viola. Le stesse promotrici della mobilitazione si sono rese conto immediatamente che il percorso del primo marzo non sarebbe potuto passare esclusivamente attraverso i social network, sperando magari in una “sponsorizzazione” da parte di Repubblica e L’espresso. Non si tratta di ridimensionare l’importanza del web 2.0, al contrario: si tratta di riconoscere che quando la mobilitazione non riguarda la figura astratta del cittadino indignato che reclama legalità ma soggetti sociali che incarnano nella specificità della loro condizione violente contraddizioni materiali, gli stessi social network cambiano funzione, devono innestarsi a loro volta nella materialità di queste contraddizioni, devono aprirsi all’inchiesta e all’incontro e devono immaginare e praticare in modi originali l’incrocio tra la realtà della rete e altre dimensioni della realtà sociale. Di qui sono venute le riunioni, i comitati primo marzo, le mille iniziative che hanno anticipato e preparato nelle scorse settimane le manifestazioni del primo marzo.
La costruzione della “giornata senza di noi” è così diventata una sorta di specchio, in cui si è riflessa la straordinaria ricchezza delle esperienze, delle forme di autorganizzazione, delle conoscenze e delle pratiche che negli ultimi vent’anni sono maturate nella società italiana attorno ai temi delle migrazioni. Associazioni anti-razziste e comitati migranti, sportelli di supporto legale e ambulatori autogestiti, scuole di italiano e associazioni di donne italiane e migranti, progetti di informazione e di ricerca, associazioni del volontariato laico e cattolico, e si potrebbe continuare a lungo. Ciascuna delle esperienze, dei comitati, delle associazioni che erano in piazza il primo marzo ha giocato un ruolo fondamentale e insostituibile per la sua riuscita, ma nessuna può rivendicare in modo esclusivo il suo successo. Ogni città, ogni piazza ha avuto la sua peculiarità, derivante dalla specifica storia migratoria e dalle esperienze di lotta e di mobilitazione che l’ha caratterizzata negli ultimi vent’anni. Ma il valore aggiunto del primo marzo, il suo carattere di prorompente novità è venuto dalla confluenza di mille percorsi di auto-organizzazione all’interno di un luogo comune libero da logiche di schieramento, tatticismi e politicismi ormai completamente svuotati di significato.
E poi, ancora una volta, c’è stato il protagonismo straordinario dei e delle migranti, finalmente emerso in forme corrispondenti ai caratteri profondamente eterogenei e al tempo stesso maturi della presenza migrante in Italia. I genitori con i bambini che frequentano gli asili e le scuole elementari insieme agli studenti e alle studentesse delle cosiddette seconde generazioni; operai metalmeccanici insieme alle lavoratrici “di cura”; negozianti ed edili a fianco dei braccianti di Rosarno che hanno aperto il corteo a Roma. Ai caratteri eterogenei e maturi di questa presenza fanno riscontro, quotidianamente, lotte e conflitti che incrociano i terreni del lavoro e dei diritti, della cittadinanza e del rifiuto del razzismo dislocandoli sul più generale orizzonte del significato della cooperazione e della convivenza nei nostri territori e nelle nostre città. Dobbiamo fare tesoro di questa eterogeneità, resistere alla tentazione di ridurre a un unico terreno la molteplicità dei piani su cui le lotte dei e delle migranti si determinano. Dobbiamo intervenire con gli strumenti dell’inchiesta e di una tessitura tenace, incardinata nelle lotte, di rapporti che possano prefigurare e materialmente costruire spazi comuni di confluenza e di consolidamento di quell’altra cittadinanza che abbiamo intravisto il primo marzo. Un nuovo inizio, si diceva. Forse è il caso di specificare: il primo marzo è stata una giornata memorabile. Sta a tutti e tutte noi farne davvero un nuovo inizio.
Sandro Mezzadra